La “Buona Scuola” del governo Renzi sta giungendo al punto di arrivo, incurante delle proteste dei docenti, degli studenti, delle famiglie, dei sindacati, ma anche delle opposizioni parlamentari sia interne alla maggioranza che esterne. Un governo che con arroganza sta mettendo fine al modello di scuola pubblica che i padri costituenti avevano definito.
A tanto non erano arrivati nemmeno i governi di destra che nel corso di questi ultimi 20 anni si sono succeduti alla guida del nostro paese.
Nemmeno il risultato elettorale delle ultime amministrative che ha fortemente penalizzato il PD ed il governo Renzi sembra scalfire i propositi riformatori, anzi sembra quasi che ci sia un atteggiamento vendicativo e ricattatorio nei riguardi di chiunque a vario titolo ha cercato di impedire che questa riforma giungesse a termine.
A proposito, come si comporteranno quei senatori e deputati del PD che rappresentano la minoranza interna di fronte all’ipotesi che il governo possa mettere la fiducia sul DDL “La buona scuola”, dopo che hanno palesemente manifestato il proprio dissenso anche nelle piazze?
Come Verdi Lombardi non possiamo che essere al fianco di chi lotta per difendere la scuola pubblica da un attacco scriteriato che non ha altri fini che smantellare un sistema scolastico pubblico in favore di un sistema di stile privatistico che risponde in maniera diretta alle indicazioni dei poteri confindustriali.
Tutto ciò avviene dopo che nel corso degli ultimi anni, senza differenze sostanziali tra governi di centro-destra e centro-sinistra, è stata condotta un’azione denigratoria e demolitrice del ruolo del docente. Docenti lasciati al loro destino, marginalizzati e ridotti sempre più a burocrati di stato e non più al loro ruolo di educatori e figure di riferimento per intere generazioni di giovani. Dipinti il più delle volte come “fannulloni” che lavorano solo 18 ore a settimana e per questo puniti, mortificando il loro potere d’acquisto e lasciandoli senza un contratto dal 2009. Docenti a cui non viene offerta una formazione adeguata, costretti ad auto-aggiornarsi attraverso auto-finanziamenti per innovare la propria didattica e stare al passo coi tempi.
A tutto ciò si aggiunge il degrado culturale in cui verte il riconoscimento sociale del ruolo dell’insegnante: i modelli di riferimento per i nostri giovani sono sempre più modelli mediatici (televisione ed internet), quasi sempre esempi che rappresentano un sistema culturale decadente, interessati ad alimentare la falsa speranza che il successo sia alla portata di tutti, se si imboccano le opportune scorciatoie. Inoltre una crisi economica finanziaria che non ha eguali negli ultimi 50 anni ha prodotto effetti devastanti sul nostro sistema scolastico.
L’edilizia scolastica lasciata al proprio destino, tanto che sempre più spesso le scuole in modo autonomo sono state costrette dalla grave situazione di tagli agli enti locali a cercare di mettere delle pezze anche sulle strutture.
Capitolo a parte merita invece la vicenda dei precari che per vedere riconosciuto il proprio ruolo e il proprio diritto al posto di lavoro hanno dovuto rivolgersi alla corte europea. Parliamo in questo caso di lavoratori della scuola (docenti e ATA) che da anni lavorano perlopiù su posti vacanti, in moltissimi casi anche da più di 20 anni, e di docenti abilitati vincitori di concorso ma che da troppo tempo attendono una loro stabilizzazione.
In questo contesto il governo Renzi con il fidato Ministro Giannini ha pensato di proporre un nuovo progetto di riforma della scuola denominato “BuonaScuola”.
Un DDL che pone al centro della riforma:
• maggiori poteri ai dirigenti scolastici, depotenziando il ruolo degli organi collegiali e l’autonomia dell’insegnamento;
• un sistema di reclutamento dei docenti che, dopo aver espletato un concorso pubblico, avverrà su chiamata diretta del dirigente;
• l’alternanza scuola-lavoro imposta per legge;
• la regola che le scuole possano usufruire di finanziamenti da privati che poi condizioneranno le scelte didattiche dell’istituto. Con l’inevitabilmente conseguenza dell’esclusione da ogni ragionamento di investimenti delle scuole di periferia (forse meglio definibili di frontiera), intrinsecamente non appetibili per i privati e forse le più bisognose di fondi.
Si è arrivato a questo attraverso una campagna sistematica fatta di mille annunci che ha creato il giusto clima di suspence per garantire l’ottima vendita del prodotto mediatico: proclami che si sono susseguiti con sempre maggior furore parossistico dall’estate 2014 per preparare l’opinione pubblica sempre più addormentata e anestetizzata al governo del fare in stile Renzi.
Così mentre negli Uffici Scolastici Regionali e nelle Istituzioni Scolastiche si cercava di compiere il miracolo di svolgere l’ordinario anno scolastico con organici ridotti all’osso per docenti e personale ATA, nonostante gli ulteriori tagli all’offerta formativa, gli adempimenti che si accavallano (assegnazioni, utilizzazioni, immissioni in ruolo e incarichi annuali, graduatorie di istituto) e le misure di finanziamento e realizzazione di sicurezza e decoro degli edifici scolastici quest’anno assolutamente insufficienti, partiva la campagna informativa e partecipativa sulla “Buona Scuola”, facendo palesare all’opinione pubblica un coinvolgimento diretto nella stesura del documento condiviso tra i diversi attori protagonisti del sistema scolastico italiano.
In questo scenario Il cittadino medio ha pensato che davvero la scuola si rimette in sesto semplicemente dicendo di volerlo fare. Mentre invece occorrono finanziamenti, dispositivi normativi chiari e possibilmente anche un’idea educativa ad orientare le scelte del legislatore.
Ci sarebbe dovuto essere il coinvolgimento ampio di quella che un tempo avremmo definito la scuola militante, piuttosto che i soliti noti (Associazione Treelle, Fondazione Agnelli, Confindustria), un tempo adeguato di discussione, di realizzazione e di valutazione della bontà di un intervento riformatore.
Il fenomeno, che colpisce per la costanza con cui si propone, sta nel fatto che solitamente la carica di innovazione dei governi dell’austerity si misuri sempre con l’abbattimento dei cosiddetti totem-tabù. Come l’art. 18 rappresenta il totem-tabù per la cultura del lavoro nel nostro Paese, allo stesso modo lo è lo stato giuridico dei docenti per quanto riguarda la scuola, che va assolutamente modificato (accuratamente senza rinnovare il contratto) poiché è nelle sue garanzie che sono insiti i molti mali della scuola italiana. I temi cari alle destre riemergono con sorprendente costanza e con gradualità diverse in questa riforma: è tutto concentrato in una sfera nelle mani del dirigente scolastico che si immagina possa avere una maggiore autonomia (che poi non coincide necessariamente con l’autonomia scolastica), spinta fino alla scelta dei docenti.
Per essere seri e in buona fede nella propria volontà di riforma, c’è da dire che si può anche aprire una discussione sulla necessità di valutare dirigenti e docenti ma che questo non può essere il punto di partenza.
A chi ha seguito il dibattito sull’autonomia scolastica, sulle necessità di rinnovamento della didattica e in definitiva sulle idee di scuola negli ultimi 10 anni, alcune delle cosiddette novità appaiono abbastanza datate e la cifra stanziata per sostenerle irrisoria. Il ricorso all’informatica, all’inglese e alle imprese ricordano un po’ troppo le tre “i “di morattiana memoria.
Colpo di grazia è stato inferto dalla Legge 133/08, la famigerata riforma Gelmini, rispetto alla quale nessuno ha avuto finora il coraggio di fare marcia indietro (benché il Pd abbia costruito su quest’impegno parte della sua campagna elettorale delle politiche del 2012… ma era un’altra epoca) perché fu il modo cinico con cui il governo Berlusconi fece cassa con risorse reali senza mai più restituire quelle risorse alla scuola .
Oggi se il Governo vuole davvero contrastare la dispersione scolastica, il drop out, gli early school leavers, dovrebbe evitare di affidarsi ai soliti burocrati, economisti e specialisti che non hanno mai svolto un’ora di docenza, oramai subordinata alle logiche della customer satisfaction, e interrogarsi davvero su quel che resta di un’offerta formativa totalmente inadeguata rispetto ai cambiamenti globali, alle esigenze del mondo del lavoro, dei ragazzi (guarda caso sempre più dislessici, disgrafici, disortografici, discalculici, Bes. DSA e quant’altro) e delle famiglie.
Invece così non è e la riforma che avrebbe dovuto rappresentare il momento centrale di tutta la politica di Renzi ha prodotto manifestazione e mobilitazioni da parte di docenti, studenti e famiglie che non ha eguali negli ultimi 20 anni.
I coportavoce regionali
Elisabetta Patellii e Aldo Guastafierro